Prima tappa (VIII sec. a.C. – V sec. d.C.)
di Emanuele Eutizi
“Un’alba di rugiada rifulse nel cielo purpureo
quando oblique le vele volgemmo a gonfiarsi nel vento.
Per un po’ fuggiamo dal litorale in secca del Mignone,
dove piccole bocche trepidano alle onde sospette.
Ecco si vedono i tetti sparsi di Gravisca
che spesso l’odore di palude d’estate opprime,
però verdeggiano i dintorni rigogliosi di fitti boschi
e l’ombra dei pini trema sui deboli flutti.
Scorgiamo antiche rovine incustodite,
sono le mura diroccate di una desolata Cosa:
Imbarazza tra cose serie ricordare la ridicola causa
di tanto sfacelo, ma non posso nascondere il riso:
ci fu un tempo che i cittadini lasciarono le case
costretti a migrare perché infestate da topi!”
Chi racconta è un senatore romano di origine gallica, Claudio Rutilio Namaziano, che nel 417 d.C. tornando nelle sue terre nei pressi di Tolosa, descrive con poche parole il profondo stato di desolazione di quel paesaggio le cui sventure, sino a quel momento rimaste sopite nel buio della notte, ora erano rese manifeste dal prepotente sorgere del sole.
Le scorrerie dei Visigoti, che appena sette anni prima avevano percorso questi lidi verso Roma devastando quello che rimaneva di un Impero ormai dissolto, avevano lasciato profonde ferite che non si sarebbero più rimarginate.
Cosa sopravviveva della potente Velch (Vulci)? Neanche il ricordo, ormai del tutto spento. E cosa rimaneva delle opere degli uomini che per secoli avevano vissuto con rispetto l’intima natura di questi territori?
Tutto il faticoso e costante lavoro che generazione dopo generazione era stato profuso, si era
come dissolto. Nel migliore dei casi rimaneva solo qualche “relitto” testimone muto di un glorioso passato
che, già prima di quella luminosa mattina di fine ottobre, si era celato e come tale sarebbe rimasto
per molti secoli, protetto da quella stessa natura che dopo essere stata a lungo sfidata dagli uomini, era
divenuta ora la custode delle loro storie.
Sarebbero trascorsi quindici secoli prima che iniziassero a riemergere i frammenti di quell’antico splendore.
Dagli scavi comparve un villaggio anzi, due: uno a Serpentaro/Infernetto e l’altro nei pressi del Borgo Vecchio di Pescia Romana; il primo prossimo alla spiaggia, mentre quello del Borgo, più interno; l’uno sorto per sfruttare le opportunità derivategli dalla vicinanza con il mare mentre l’altro per trarre profitto dalla feracità
dei terreni lagunari.
La concomitante presenza di queste due comunità favorì così la nascita del primo vero approdo sulla costa compresa fra l’Arrone ed il Chiarone. Qui iniziarono a giungere merci e generi di lusso che, attraverso
una strada millenaria, forse la più antica fra quelle ancora percorribili in questo territorio ed attualmente conosciuta come “Corridori”, giungevano anche a quelle comunità che nell’VIII secolo a.C. stavano dando vita alla futura Vulci; perché, in realtà, una cospicua parte di quei prodotti, provenienti dalle coste greche e dalle colonie che il popolo ellenico andava fondando nell’Italia Meridionale, rimaneva nell’ambito delle
comunità di Pescia Etrusca. Ne sono testimonianza degli splendidi oggetti fra cui un cratere con coperchio risalente al 730 – 710 a.C., attribuito al Pittore di Cesnola e rinvenuto alla fine dell’Ottocento
in una tomba che faceva parte di una necropoli in seguito abbondantemente saccheggiata nonché un ricco
corredo di bronzi proveniente dall’area del Chiarone.

Gli scavi delle necropoli pertinenti all’insediamento di Pescia Romana, hanno permesso di recuperare oggetti databili al VII secolo a.C. fra cui opere attribuite a maestri ceramisti che avevano impiantato le loro officine in queste comunità che oggi identificano l’artista. È il caso del Pittore di Pescia Romana il cui laboratorio
attivo tra il 620 ed il 580 a.C. produsse una serie di oggetti che, seppur destinati alla comunità locale, furono anche acquistati da facoltosi personaggi che abitavano a Vulci, per cui attualmente non è infrequente rinvenirli nelle tombe arcaiche della necropoli dell’Osteria magari insieme a vasi realizzati da maestri a lui contemporanei quale il Pittore della Sfinge Barbuta.






A rafforzare la convinzione che, almeno sino alla fondazione dell’emporio di Regae (nei pressi delle Murelle), Pescia stesse ricoprendo un ruolo fondamentale nella storia di Vulci e per questo godesse di un florido status economico, sono una serie di altre testimonianze: ci si riferisce ad esempio all’anfora tirrenica opera del Pittore di Prometeo datata al 560-540 a.C., all’anfora attica a figure nere, opera di Lydos, maestro attivo ad
Atene fra il 560 e il 540 a.C., ma soprattutto al rinvenimento nell’aprile del 2000 in loc. “La Memoria” di una tomba etrusca risalente al 540-530 a.C. Grazie alla sua scoperta, per la prima volta, è stato possibile ubicare con esattezza un monumento sepolcrale nella zona di Pescia Romana la cui storia etrusca, fino ad allora, era stata ricostruita solo attraverso i corredi che, sconsiderati scavi ottocenteschi, ne avevano causato lo smembramento tra i musei di Firenze, Grosseto e Orbetello.
A questa tomba si aggiunga inoltre che, in località “La Viola” poco distante dalla precedente, sono stati recuperati interessantissimi dati riferiti ad altre due tombe anch’esse arcaiche, purtroppo già saccheggiate
dall’attività clandestina. Malgrado la creazione dell’emporio di Regae – le Murelle – immancabilmente
abbia inciso sull’aspetto mercantile dell’economia di Pescia, quei villaggi, dalla metà del VI secolo, conobbero
comunque un momento di ulteriore agiatezza economica data la grande produttività dei suoli e la loro dislocazione estremamente felice su strade di comunicazione dirette sia verso il Nord che verso l’interno. E uno dei documenti che attesta di come questa floridezza sia proseguita anche nel corso del V secolo
a.C. è una kalpis del Pittore di Villa Giulia risalente al 460-450 a.C. realizzata ed acquistata in una fase storica in cui, l’economia di questo territorio produceva comunque ricchezza. Di questa prosperità le aristocrazie vulcenti, rientrate in possesso dei grandi latifondi, ne godettero per almeno altri due secoli, almeno
finché furono vinte da Roma: nel 280 a.C.
A quella data tutto sembra cambiare, ma in realtà niente sarebbe cambiato. Dapprima da Roma giunse una moltitudine di coloni a cui, nel tempo, si sostituirono pochi ed imprudenti latifondisti; infine arrivò Odoacre, il reggitore; dopo di lui il silenzio. Una pace secolare, quieta e taciturna avvolse allora le dune ed i boschi sino a quando i pronipoti di quegli stessi “barbari” scesi nel 407 dal Nord Europa, non riscopriranno gli Etruschi.
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