Terza tappa (anno 1775)


La Memoria: I misteri e la leggenda di una tragedia contadina

di Daniele Mattei

In Località La Memoria, all’altezza del Km 117 della Strada Statale Aurelia, guardando in direzione di Montauto, si può notare, a poca distanza dal ciglio della strada, un cippo, un pilastro.

Se qualcuno avesse tempo di fermarsi ad osservare, su quel vecchio cippo leggerebbe un’incisione, perché quel vecchio cippo è un monumento sepolcrale. Sulla pietra, sotto una piccola croce appena tinta di rosso, sono incise queste parole:

“IN QUESTO LUOGO STANNO SEPOLTI I CORPI DI 15 UOMINI E 10 DONNE RIDOTTI IN CENERE DALLE FIAMME DI UNA CAPANNA CHE QUI S’INCENDIO’ NEL MARZO DEL 1775. PREGATE PER LORO”.

Chi erano? Cosa facevano in quella capanna? Quali le cause dell’incendio?

Leggenda Popolare: Il “Ballo Angelico”

Le voci degli anziani del Paese sono concordi nel dire che i comportamenti peccaminosi dei suoi abitatori furono la causa dell’incendio della capanna. Ma in che modo? Qui la storia si confonde con la leggenda.

Parisina Pelosi, figlia di Filippo da Servigliano, noncurante delle sue novantatré primavere, ha assicurato di ricordare perfettamente questa storia che ha conosciuto da sua madre e dalle donne con cui andava a raccogliere la spiga nelle pianure di Pescia.

Dice Parisina: “Alle Doganelle una capanna era sprofondata lasciando solo una colonna [cioè il cippo], dentro facevano il ballo angelico, cioè ballavano nudi e ne combinavano di tutti i colori. Per l’intervento divino, quei peccatori sono stati puniti.” Sprofondati negli inferi!

Nel racconto di un altro anziano — che vuole mantenere l’anonimato — i fatti si sono svolti in modo diverso, ma la causa è la medesima; parafrasando: “nella capanna si facevano le danze verdi, il ballo angelico; di queste abitudini perverse venne a conoscenza il Cardinal Venoso che una notte fece circondare da un drappello di Dragoni pontifici la capanna e le diede fuoco per metter fine a questi fatti. A monito e a ricordo rimase il cippo.”

La leggenda della Memoria è non solo affascinante, ma degna di un’analisi storica. La prima domanda che mi sono posto è stata: come ha fatto questa leggenda a sopravvivere ai secoli? Di certo non per mezzo del cippo che si trova sperduto tra le campagne, dimenticato dai più! Il secondo quesito invece è quello che attanaglia tutti coloro che si appassionano alla storia: qual è la verità?

La Verità Storica: una tragedia contadina e le condizioni di vita nel 1775

Per avere delle risposte ho studiato a lungo sui libri e soprattutto sui documenti che ho trovato nel nostro Archivio Storico Comunale e su quello di Stato di Roma. Ora ho un’immagine degli eventi molto differente da quella della leggenda, ma purtroppo molto più terrificante.

L’intero territorio detto di Campo Pescia nel 1775 faceva parte, insieme a Campo Morto, Campo Scala e a S. Agostino, della Castellania di Montalto ed era di proprietà della Reverenda Camera Apostolica, dunque dello Stato della Chiesa.

Quest’ultimo non sfruttava direttamente questi territori ma li dava in affitto per nove anni ad un privato che nel nostro caso era chiamato Appaltatore dello Stato di Castro e Ronciglione. In quegli anni l’Appalto era nelle mani di Filippo Stampa, un romano.

Non era certo quest’ultimo ad occuparsi della coltivazione dei campi, in quel tempo unicamente la cerealicoltura, o dello sfruttamento dei pascoli: l’azienda di campo aveva piuttosto una struttura piramidale che vedeva a capo di tutto, con poteri praticamente assoluti, il caporale, e di seguito i fattori, i fattoretti, i capoccia.

La parte più umile invece era composta dai braccianti, bifolchi o monelli (monello deriva da mondarello: era cioè l’operaio che liberava il grano dalle erbe estranee; l’accezione di giovane discolo è recente).

Questi lavoratori, che scendevano ogni anno in autunno dagli Appennini centrali seguendo le vie della transumanza, si trovavano in condizioni di vita al limite della sopportabilità:

  • Lavori duri: dalla semina alla mietitura, svolti dall’alba al tramonto.
  • Alimentazione pessima: pane mal cotto, cipolle ed erbe di campo, qualche volta una fetta di ricotta o l’«osso di pecora»; l’acqua quella di fosso.
  • Malattie: innumerevoli casi di malaria, ricoveri praticamente impossibili, data la distanza e il sovraffollamento dell’Ospedale S. Sisto.
  • Abusi e violenze: documentati abusi perpetrati ai danni dei monelli da parte dei caporali e dei loro aiutanti, e la violenza con la quale li obbligavano al lavoro anche se malati. La situazione fu riassunta dalle parole stesse del Cardinal Rezzonico, che nel 1777 considerò i monelli “Quasi servi in captivitate”, cioè quasi schiavi in cattività.
  • Riposo insufficiente: consumato in capanne di paglia alla mercé del freddo e degli insetti, non poteva certamente aiutarli ad affrontare una nuova durissima giornata di lavoro.

Che in quella capanna, nel lontano 1775, vi fossero monelli e monelle ne sono assolutamente convinto; tra l’altro lo prova il fatto che le compagnie di monelli erano in media in numero di 25 (…15 uomini e 10 donne ridotti in cenere…). Che questi poveracci avessero la fantasia e la forza di fare diaboliche danze e riti pagani, lo lascio all’intelligenza del lettore.

La Testimonianza del Capitano Giuseppe Schiatti

Ma il documento più limpido e allo stesso tempo incredibile ci è fornito dal successore di Filippo Stampa nell’Appalto: il Capitano Giuseppe Schiatti che in una lettera diretta al Tesoriere Generale dello Stato della Chiesa – la più alta carica del Governo pontificio dopo il Papa – scrive:

“Le capanne camerali di paglia, che si consegnano all’appaltatore sono un eccidio di gente, che muore bruciata viva ogni qual volta prende fuoco una di queste capanne mentre dormono presso di essa i poveri braccianti stanchi delle fatiche del giorno. Il lume, ed il fuoco che di continuo tengono i campagnoli in tali capanne per difendersi dal rigore della stagione, sono causa dei frequenti incendi che succedono in esse. A questo gran rischio aggiungasi l’altro della rivalità e vendetta dei campagnoli che per vendicarsi di un fattore, o d’un caporale, sono capaci di dar fuoco all’esterno della capanna, dove trova a riposarsi l’oggetto del loro odio e della loro vendetta. Annuali sono tali disgrazie in Montalto, e lapidi erette in mezzo a quelle campagne attestano vari di questi tragici fatti, in uno de’ quali venticinque monelli furono divorati dalle fiamme, ed altri trecento circa mezzi bruciati morirono fra pochi giorni… (il grassetto è mio).

Leggenda e Verità: Domande Aperte

Ma se questa è la verità, come si intreccia ad essa e si spiega la Leggenda del “ballo angelico”? Quali le ragioni di una tale distorsione della realtà? Perché generazioni intere hanno tramandato per due secoli questa strana versione dei fatti?

Riesco solo ad aggiungere domande su domande:

  • Forse la leggenda delle danze angeliche ha preso forma e si è tramandata per nascondere una verità troppo cruenta da ricordare? Per dimenticare?
  • Forse tutto, con il passare degli anni, andò confondendosi con la saggezza-sciocchezza contadina del “non si muove foglia che Dio non voglia” e finì per perdersi tra le maldicenze e le contorte fantasie popolari?

Non so. Voglio solo credere al messaggio inciso su quella lapide: “PREGATE PER LORO”.


Tratto da “Il Campanone – 2004”